Il tema delle politiche anti-crisi, in questi anni difficili di caduta dei redditi e scomparsa del lavoro, è da tempo entrato di prepotenza nelle case italiane, nei forum e nei blog. E persino il QE, il “Quantitative Easing”, una volta conosciuto solo dagli specialisti (e a lungo ignorato persino dai manuali di economia monetaria) è ormai un’espressione da titolo di prima pagina. È dunque del tutto opportuno che qualcuno spieghi cos’è. Soprattutto nel momento in cui tutti si aspettano che Mario Draghi dia il via, giovedì prossimo, alla politica di QE in Europa.
L’espressione si usa sempre in inglese, benché si possa efficacemente tradurlo come “stimolo quantitativo”. Nondimeno, il termine originale è giapponese.
Nasce a metà anni degli anni ’90. E a coniarlo (in giapponese) fu Richard Werner, uno degli autori di Euroland and the World Economy, da me curato con Jörg Bibow, dove prima della crisi spiegavamo che l’Eurozona si trovava su un sentiero insostenibile. Lo coniò per fare il titolo di un suo articolo uscito in Giappone. La frase fu poi tradotta in inglese, usata ufficialmente dalla Banca del Giappone, e finalmente diffusa a piene mani nella comunicazione della Federal Reserve americana. E ora in arrivo anche nell’Europa dell’euro.
Ma che genere di politica monetaria è il QE?
Carlo Bastasin (su il Sole24ore) lo spiega a chi già lo mastica, mettendone bene in luce gli effetti attesi e i rischi di fallimento. Su Panorama, Andrea Telara lo spiega a chi non lo mastica affatto, delineandone obiettivi e rischi di flop. Molto attento come sempre alla qualità dell’informazione, il Post dedica al QE un articolo per la serie “spiegato bene”, che si chiude con l’interrogativo: Funzionerà?
Il problema è che nella divulgazione c’è un piccolo grande problema. Siccome sul QE anche gli specialisti hanno idee contradditorie, va da sé che riassumere il concetto in pillole non è un esercizio semplice. E rischia di lasciare il lettore con molti interrogativi. Chi in questi giorni ne scrive tende a dare del QE una descrizione “teorica” (che dovrebbe funzionare a stimolare prezzi, redditi e occupazione) a cui vengono contrapposti gli ostacoli “pratici” che ne potranno limitare gli effetti.
Ma teoria e pratica non dovrebbero essere fra loro complementari (e non contrapposte)? Non dovrebbe cioè una buona teoria fornire un modello per poter mettere in pratica una ricetta efficace?
Vale dunque la pena riprendere qui alcune affermazioni a proposto del QE, liberamente tratte dalle fonti citate e da altre ancora, per mettere a fuoco alcuni punti chiave. La teoria del QE è normalmente spiegata così:
Siccome i tassi d‘interesse della BCE sono già bassi, bassissimi, alcuni perfino negativi, alla BCE non rimane che stampare moneta. Questo farà crescere la quantità di denaro in circolazione, con diversi effetti: il calo dell’euro nei confronti del dollaro, una maggiore propensione delle banche a concedere prestiti a famiglie e imprese, un impulso all’inflazione, un calo dei rendimenti sui titoli di stato. L’impatto economico comprende perciò uno stimolo alle esportazioni (grazie a un euro più debole), un impulso agli investimenti (grazie al credito bancario), un calo del rapporto debito/PIL (grazie all’inflazione), un po’ di sollievo per gli stati senza spazio di manovra fiscale (grazie al calo degli interessi sul debito).
Primo punto: Siamo sicuri che la politica dei tassi prossimi allo zero abbia effetti di stimolo alla domanda? I tassi rasoterra (e in qualche caso addirittura sottoterra) danno, sì, sollievo ai debitori, ma diminuiscono anche il reddito dei creditori.
Secondo punto: Che significa che la BCE stampa denaro? A metterla così sembra che la BCE innaffi l’Eurozona di banconote. Il che avverrebbe se la BCE finanziasse un programma fiscale per dare lavoro ai più volonterosi disoccupati europei chiamandoli a svolgere lavori di assistenza sociale, culturale ed ambientale (ad esempio). Ma la BCE si limita ad acquistare titoli dal mercato. Non fa circolare più denaro. Non crea alcun reddito. Ed anzi lo riduce. Perché così facendo diminuisce ulteriormente i redditi del settore privato, che si trova con meno titoli (e rendimenti) in mano, in cambio di denaro che non rende nulla (ed anzi in questo momento è addirittura tassato dal rendimento negativo).
Terzo punto: Perché le banche dovrebbero prestare di più? Quando le banche avranno scambiato titoli per denaro della BCE, i loro bilanci saranno invariati.
Quarto punto: Da dove mai potrà arrivare l’inflazione? Se è vero che non c’è stimolo della domanda, non c’è motivo perché la dinamica dei prezzi sia influenzata dal QE.
Quinto punto: Se davvero l’euro si indebolisse ulteriormente, servirà esportare di più? Qui è imperativo rispondere di sì. Nel senso che nella totale assenza di politiche economiche della domanda e della crescita, l’Eurozona è condannata a mantenere i flussi commerciali in uscita maggiori di quelli in entrata. Dipendendo così dai mercati e dalle politiche altrui (non avendone una propria).
Sesto punto: Nessuna banca centrale ha mai fatto la politica di QE usando i titoli degli stati sub-federali, o delle regioni, come invece sarà costretto a fare Draghi, il quale ovviamente non ha altra scelta, visto che gli Eurobonds non sono (per usare un eufemismo) tra le priorità dell’UE. Questo lascia aperto un contenzioso politico che inevitabilmente condizionerà la risposta dei mercati al QE europeo.
Dunque? Viva il QE! se riuscirà a illudere i mercati ancora per un po’. Ma non aspettiamoci miracoli sull’economia, i redditi, i prezzi e il lavoro. Per la crescita occorre la politica economica che crea reddito. Per usare l’analogia che uso in Salviamo l’Europa dall’austerità, serve il carburante della politica economica. Non basta l’olio della BCE. O il motore, Grecia o non Grecia, rischia di andare in blocco.