Ieri mattina, poco dopo le 10, la BNS ha emesso un breve comunicato che ha messo fine al provvedimento che imponeva un limite massimo al valore del franco in euro. Nei minuti successivi, gli ordini di acquisto di franchi che contavano sul tetto fornito dalla Banca Nazionale Svizzera (con 1 franco e 20 centesimi si poteva acquistare al massimo un euro) hanno improvvisamente scoperto che il tetto non c’era più. E per alcuni minuti, 1 franco e 20 centesimi hanno potuto comprare quasi un euro e 40 centesimi, il 40% in più!). Grande sbigottimento nei mercati, dunque. Gli operatori erano incollati al video. Gli uffici cambi per i turisti in Svizzera ieri cambiavano al vecchio cambio in attesa di disposizioni. Nessuno aveva percepito alcun sentore di una mossa del genere. Gli statistici calcolavano quanto raro è un evento in cui un prezzo si muove, da un secondo all’altro, di 20, 30 volte la deviazione standard.
Da un buon quarto di secolo, le banche centrali ci avevano abituato a decisioni annunciate, preparate con attenzione mediatica, che quando vengono finalmente attuate sono già considerate probabili, o addirittura scontate, dagli operatori. Ne abbiamo visto diversi esempi in questi anni, dalla Fed come dalla BCE. Ma questa volta la BNS ha preso in contropiede tutti, e in poche ore si è scatenato un putiferio, con effetti a catena a partire da chi, fuori dalla Svizzera, ha debiti denominati in franchi (come ad esempio in Ungheria e in Polonia), e che ha già coinvolto almeno due intermediari (a New York e ad Auckland) costretti a sospendere l’attività a causa delle ingenti perdite.
Perdite rilevanti anche sulla borsa svizzera. La prospettiva di un franco più caro del 10, del 15 o forse del 20% significa cali importanti del fatturato e degli utili del settore esportatore, come nel Giura, dove oltre il 90% della produzione di orologi è venduto all’estero, come nel turismo, o come nelle regioni più prossime al confine dove con un breve viaggio si possono fare acquisti in euro.
Una cosa è certa: il prezzo del franco è di nuovo interamente scandito dalla domanda di franchi a fronte della loro disponibilità sul mercato. Come il dollaro, come l’euro. La stessa BNS soffre perdite rilevanti, stimate oltre i 40 miliardi di franchi. Trattandosi di una banca centrale (che è sempre in grado di pagare i propri debiti nella propria moneta) si tratta di perdite puramente contabili, che potrebbero al massimo sollevare qualche polverone politico. E tuttavia ci si domanda, come è ovvio, quali saranno gli effetti. E visto l’effetto sorpresa, in molti si chiedono quali siano state le motivazioni della BNS.
Un’opinione diffusa in queste ore è che la BNS abbia inteso sganciarsi da un impegno non esente da rischi prima di essere costretta a farlo, sull’onda delle imminenti elezioni greche e delle decisioni di Draghi a Francoforte giovedì prossimo. Ma c’è qualcosa di più. Il motivo esplicito nel breve comunicato della BNS è che il deprezzamento del franco nei confronti del dollaro era diventato eccessivo. Si annuncia anche un’ulteriore riduzione dei tassi d’interesse fino a -1.25%, molto più in basso del tasso negativo della BCE (-0.20%), facendo intendere che i tassi negativi avranno l’effetto di evitare un eccessivo apprezzamento sull’euro.
Ma i tassi negativi non stimolano l’economia, anzi contribuiscono ad affondarla, non essendo altro che una confisca patrimoniale alle banche, che a loro volta possono in parte trasferirla ai loro clienti. In questa strategia potrebbe esserci allora un punto debole. Come spiego in Salviamo l’Europa dall’austerità, la somma del denaro in circolazione e di quello che forma i nostri risparmi può venire solo a) da prestiti bancari, b) dall’estero quando un paese esporta, e c) dal disavanzo pubblico. Se il franco resterà caro, la Svizzera ricaverà meno dall’estero e i mancati introiti dovranno essere in qualche modo compensati. E con una politica fiscale nazionale orientata al pareggio di bilancio (come nel resto dell’Europa) a compensare l’export perduto potrà essere un aumento del credito bancario oppure un calo dei redditi, della produzione e dell’occupazione.
Nel momento in cui la Svizzera rimuove il dispositivo inventato nel 2011 per tenerla a distanza dai guai dell’Eurozona, le opzioni di politica economica assomigliano sempre più a quelle dell’Eurozona. E diventa auspicabile per la Svizzera una soluzione simile a quella di cui si parla sempre più insistentemente in Europa, e cioè autorizzare i governi a spendere il proprio denaro per investimenti e infrastrutture pubbliche al di là dei limiti dettati dal pareggio di bilancio.