Da L’Avvenire, 15 Aprile 2014, Intervista a cura di Marco Girardo
Quali sono le ragioni culturali che hanno portato a individuare nella disciplina fiscale e nell’austerità la risposta europea alla crisi del debito e alla recessione? Un malinteso senso di responsabilità con esiti diametralmente opposti alle buone intenzioni che lo ispirano. Negli anni ’50 Eisenhower si preoccupava del debito nazionale americano perché lo avrebbero dovuto pagare “i nostri nipoti”. Ma quei nipoti crebbero nel periodo di maggiore prosperità del ventesimo secolo, grazie ad una politica che, a differenza di Eisenhower, vedeva nel debito pubblico uno strumento, e non un fine. Da noi, la condivisione dell’euro tra paesi politicamente indipendenti e culturalmente diffidenti si è affidata alle regole sul debito come garanzia di stabilità, ma quelle regole hanno invece destabilizzato l’Europa.
Quali sono le principali obiezioni alla ricetta keynesiana di far leva sul deficit/debito pubblico per contrastare la recessione? Si obietta che la crescita sarebbe effimera, e che se sale il debito pubblico, cala la fiducia. E poi c’è l’argomento della svalutazione interna. Stringere la cinghia significa accontentarsi di retribuzioni più modeste, ma anche riuscire a esportare più.
Perché austerità e svalutazione interna non funzionano in una recessione? In particolari condizioni possono anche funzionare. Se un paese può contare su una robusta domanda estera e un cambio stabile, la compressione del disavanzo pubblico e dei redditi può tenere alta la produzione di beni per l’export. È quel che è riuscito alla Germania. Ma solo grazie al fatto che il cambio col Sud Europa era fissato dall’euro e il disavanzo pubblico del Sud alimentava l’acquisto di merci tedesche. Dunque, il modello tedesco ha funzionato solo perché gli altri paesi non lo seguivano. Con l’austerità, le esportazioni tedesche si sono spostate sul mercato extra-europeo. E il valore elevato dell’euro sul mercato del cambi è ora un problema anche per la Germania.
Perché il pareggio di bilancio non è necessariamente una pre-condizione per il rilancio dell’occupazione e per la crescita? Nel libro l’ho chiamato il “principio della porta girevole”. Il denaro speso dallo stato è il denaro che entra in circolazione. Il denaro che invece paghiamo in tasse è il denaro che scompare dalla circolazione. Il settore pubblico ha la responsabilità di alimentare l’economia con la giusta quantità di denaro in grado di dare un lavoro a tutti coloro che aspirano ad averlo. Fissare un criterio diverso da questo è stravagante. E irresponsabile.
Come rispondere a chi obietta che il debito italiano diventerebbe comunque insostenibile e i “mercati” lo punirebbero portando il Paese al default? Intendiamoci, il debito italiano era già praticamente insostenibile nel 1999. Ora, dopo l’annuncio di Draghi, è in qualche modo garantito dalla BCE. E non credo che se l’Italia sforasse appena il tetto consentito i mercati se la prenderebbero troppo. Ma a cosa servirebbe? Una parte della spesa se ne andrebbe a creare posti di lavoro all’estero, il nostro paese tornerebbe ad essere “osservato speciale” e al parziale sollievo farebbe seguito una nuova ondata di austerità. Questa sì che sarebbe una crescita effimera.
L’uscita dall’euro sarebbe invece una soluzione? Guardi, alcuni colleghi che stimo sostengono che non sarebbe poi così drammatica per un paese come l’Italia. Da un punto di vista strettamente economico hanno ragione, ma solo se la politica economica cambiasse di 180 gradi. Vedo molti politici che chiamano l’uscita dall’euro, ma pochi (o nessuno) con le idee chiare su cosa fare la mattina dopo. Sarebbe anche indispensabile che la nuova “lira” si sganciasse da qualunque accordo di cambio, cosa mai successa nella storia recente della lira. L’altra mia obiezione è storica e culturale. I nostri figli più audaci e innovatori si sentono prima di tutto europei. Chi glielo spiega che a causa di un fallimento della politica europea la prossima volta che andranno a Parigi o Berlino dovranno andare all’ufficio cambi?
Quali sono le vie alternative all’austerità in Europa e quali le obiezioni che vengono mosse? Bini Smaghi dice che l’alternativa all’austerità è fare le riforme strutturali per aumentare il potenziale di crescita del Paese. Siccome per lui stimolare la domanda è un tabù, auspica che cresca la produttività. Ma la causa di nove milioni di disoccupati in più nell’Eurozona non è un calo del potenziale di crescita. È che alle aziende mancano ordini e fatturato!
La sua proposta del Tesoro europeo perché risulterebbe più praticabile? Lo spiego per esteso nel libro, ma in sintesi si tratta di creare un “disavanzo pubblico europeo” mirato alla piena occupazione. Risolverebbe molti problemi assieme: dal rispetto dei vincoli nazionali, allo spread, al rilancio del credito bancario. Prima di gettarsi nell’ignoto delle conseguenze di un trauma politico in Europa a seguito dell’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro, è semplicemente imperativo studiare una soluzione condivisa. L’Europa ci deve credere.